Erano passate solo quattro settimane dal suo arrivo in Val Badia e Camilla si era già guadagnata un soprannome, ma non uno di cui esser fiera. Era più un’etichetta, che riassumeva la sua vita sventurata. In paese era chiamata la Vedova Bianca.
Era ospite nell’appartamento di un’amica di sua madre, Maria, che era nata a San Cassiano per poi trasferirsi al sud per amore. Ogni estate Maria e suo marito trascorrevano tre mesi in Trentino, dove lei godeva della vista delle montagne e lui del clima fresco e rigenerante. Per tre decadi non avevano mai mancato all’appuntamento estivo, però quell’anno era nata la loro terza nipotina, rendendo il duemiladiciannove memorabile, e così la coppia di neononni si era recata in Francia a trovare la figlia.
Camilla non voleva assolutamente partire per quel paesino sperduto tra i monti. Sua madre però era stata irremovibile: sperava che la figlia potesse trovare pace in mezzo a quelle montagne meravigliose e le aveva ripetuto per l’ennesima volta che meritava un pizzico di serenità, estorcendole la promessa di provarci. Alla fine, lei aveva ceduto al peso del ricatto morale. Se fosse andata male sarebbe potuta tornare a casa in qualsiasi momento.
Il paesino era incantevole, circondato da massicci su tutti i lati regalava uno spettacolo mozzafiato. Nonostante fosse solo una frazione di Badia, San Cassiano era una nota meta turistica e per questo molto ospitale con hotel, ristoranti, negozi e una deliziosa zona pedonale in cui Camilla aveva spesso vagabondato.
In fondo alla via della chiesa si trovava il negozio di Denise, la parrucchiera che aveva diffuso la sua storia dopo averla sentita da Maria. Da lì era nato l’infausto soprannome Vedova Bianca, che tutti pronunciavano accompagnato a un mesto sorriso di solidarietà.
IL BACIO
Quando avevo diciassette anni, Eleanor Rigby ne aveva trentatré. La sua canzone, intendo.
Era il marzo 1999, e mi era venuto in mente di inventarle una vita più precisa dell’ombra emaciata e illusa in cui l’avevano confinata i Beatles. La storia di un angelo – tale Eleanor R., la mia – che aveva disseminato il cielo di stelle. Ma non erano proprio stelle: erano granuli bianchissimi, come chicchi di riso sfuggiti alla sua mano mentre correva inebriata dall’altra parte del cielo. E vi era arrivata correndo, naturalmente, per abbracciare John Lennon.
Ero piena così di quella canzone. Mia madre, che apprezzava tanto i Beatles, mi aveva raccontato la storia di Eleanor R. cento volte: anche la sua novella inedita era ispirata a quel testo. La meravigliosa storia di Eleanor, sorella di padre McKenzie, che finisce senza memoria e senza amore, celebrata dal sermone di suo fratello il giorno di un funerale desolato. Sepolta poi in un giardino della Scozia orientale, dove i gatti in calore senza patria vanno a piangere.
Nella mia compilation artigianale, il brano si trovava sulla traccia numero undici: alla fine strideva, s’increspava odiosamente. Eppure quella sera l’ascoltai a non finire.
Mia sorella Khady era lì di fianco a me, col suo manuale di anatomia, sul suo letto dalla trapuntina vinaccia. Senza scomporsi, osservò che quella canzone ormai stava sulle scatole a tutti, e già da un po’.
Ma c’è da dire Khady non è proprio mia sorella. Non sarebbe agile né fruttuoso spiegare tutta la trafila dell’amore che i miei nutrirono per lei a prima vista (che poi è la trafila della sua adozione, molto fortunata); ma fu adottata all’età di cinque anni, quando io ne avevo tre e mezzo, e da allora in poi crescemmo e vivemmo proprio come sorelle. E altro che storie
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