TITOLO: Una Zebra a Pois – L’Amore ai tempi della crisi
AUTORE: Giulia Barucco
EDITORE: Words Edizioni
GENERE: Chick lit (Office Romance/Hate To Love)
FORMATO: Ebook (2,99) - Cartaceo (15,90)
RELEASE DATE: 19.07.2021
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Lei è una copy squattrinata con un doppio lavoro discutibile.
Lui è il suo nuovo, fastidiosissimo capo.
TRAMA
Rebecca, Sagittario, copy squattrinata. Credente e praticante della filosofia “se il mondo ti regala limoni, fatti una limonata”, si barcamena tra il lavoro in un’agenzia di comunicazione e una convivenza a quattro molto particolare. Quando la crisi la costringe ad accettare un secondo lavoro discutibile e il capo della sua agenzia, a causa di un infarto, viene sostituito dall’insopportabile figlio Andrea, le cose peggiorano in maniera drastica. Incastrata nel ruolo di assistente dell’odiato nuovo capo (di giorno) e di maldestra spogliarellista (di notte), Rebecca si trova a gestire una doppia vita con l’aiuto di abbondanti dosi di vodka russa e la sagacia dei suoi coinquilini. Guai come se piovesse.
L’AUTRICE
Scegliendo di intraprendere gli studi umanistici, Giulia Barucco ha deluso il nonno che la voleva ostetrica. Le ostetriche invece ringraziano. Dopo la laurea in Scienze e Tecnologie di Arte e Spettacolo (Cattolica di Brescia) e la specialistica in Cinema, Tv e Produzione multimediale (I.U.L.M. di Milano), lavora per alcune produzioni Mediaset e Rai fino a quando, diventando moglie e mamma, inizia a lavorare come copy per alcune agenzie di comunicazione. Non essendo sufficientemente molesta nei confronti di amici e parenti, a maggio 2019 inaugura il blog GrrrPower con alcune sue amiche e colleghe e obbliga tutti a leggere i suoi articoli. Dal 2019 ha molti meno amici, ma tanta voglia di scrivere, leggere libri, incatenarsi al divano per guardare serie tv e molestare intellettualmente il prossimo.
ESTRATTI
1.
«Per quello che devi fare, basta e avanza. Praticamente c’è un palo, e tu ci balli attorno. Sei in mutande e reggiseno, e non farmi la verginella che è come al mare.»
«Al mare non ci sono i pali.»
«Cretina, intendevo per il costume. Ma che cazzo vuoi? Ti pagano bene, nessuno ti tocca con un dito, le stagiste inizian…»
«Cos’hai detto? Le stagiste? Certo! Adesso lo stage te lo becchi anche al night club, mi sembra giusto. Il mondo fa ufficialmente schifo.»
«Hai rotto i coglioni.» Buttò sul tavolo i duecento euro di acconto per il frigorifero mentre io cercavo di raggranellare dal fondo del portafogli qualche moneta da un euro. C’erano solo gettoni per i carrelli del supermercato.
«Oh, guarda che al night club i posti vanno via come il pane. Ti conviene pensarci su molto bene, cazzo. E smettila di mungere quel portafogli, che non produce soldi.» Girò i tacchi verso l’uscita, lamentandosi di quanto i ritardi non fossero ben tollerati nel suo ambiente di lavoro.
Smisi di cercare un doppio fondo che poteva essermi sfuggito e restai a fissare i suoi soldi sul tavolo, pensando a La casa di carta, ai pali, alle pizze e ai calciatori, accompagnata dalla melodia di rumori molesti prodotta dai due aspiranti dottori al biliardino.
Inutile negare che ci stavo pensando.
E mi vergognavo come una ladra.
2. Da quella stessa sera vendetti l’anima a Vladimir, proprietario russo di una catena di night club da far impallidire Fratelli Labufala, e iniziai a danzare mezza ignuda attorno a un palo. Confessarlo mi crea ancora oggi del disagio.
La mia prima sera ballai sbronza di vodka e per poco non feci la fine di Lollipop, la ragazza di cui avevo preso il posto e che si era fracassata l’anca caracollando dal palo, perché, su consiglio di Vladimir tu bagna con vodka primo giorno di nostro patto solenne. Ne ingollai così tanta da vederne due, di pali. Il mio nuovo mantra divenne sono una ballerina di danza classica, e lo ripetei con una frequenza tale che le mie esilaranti nuove colleghe mi procurarono scarpette da ballerina e un sexy body rosa con sexy tutù - sexy sta per completamente trasparente - che io indossavo sopra un completo di pizzo bianco.
Dopo una breve contrattazione con il buon Vladimir, ottenni un turno di cinque ore serali estremamente flessibile, che mi permetteva, miscelando sapientemente vodka e ginseng, di mantenere il mio vero lavoro. Ottenni anche il permesso di tenermi addosso il body nei giorni feriali e mostrare la balconata solo il sabato, che divenne il giorno dedicato al coma etilico a causa dei bagni di vodka che Vladimir riteneva fondamentali a eliminare quelle cose che noi umani chiamiamo vergogna e senso del pudore.
Mi alzavo alle otto del mattino e facevo colazione in doccia, per guadagnare tempo. Alle nove planavo al lavoro e staccavo alle sette di sera, per poi partire per il Russian Dream, dove mi facevo un solido aperitivo a base di vodka e olive e mi preparavo per attaccare il turno alle otto.
All’una di notte mi struccavo, mi mettevo il pigiama direttamente al night, piangevo per tutto il tragitto in auto e mi tuffavo di testa nel letto. Inizialmente vomitavo anche i superalcolici, poi capii che dovevo concentrarmi sui soldi che gli uomini mi infilavano nelle pieghe del tulle e non sui loro sguardi assatanati. Così smisi di correggere infrasettimanalmente le bottigliette da mezzo litro di acqua col gin (giusto per variare). Fu indubbiamente un bene per il mio fegato.
Piangevo anche meno.
A volte.
Nonostante i miei sforzi logistici, comunque, le mie occhiaie brillavano di un colore che Elena definì zoccoviola.
Ah. Il mio nome d’arte divenne La Ballerina.
3. Non potevo sapere cosa sentisse lui, ma beveva e mi guardava bere, come io guardavo lui. Sguardi che erano sintomo di una ridicola e adorabile connessione fisica. Salii sul piedistallo, sedendomi poi sulla base e dondolando le gambe come su un’altalena. Mordicchiai la cannuccia e aspettai che si accomodasse. Andrea si sedette e appoggiò il proprio bicchiere accanto al mio, a un palmo dalle mie gambe nude.
Volevo che mi toccasse.
E mi vergognavo profondamente per questo.
Barcollavo sgraziata da uno stato di strafottenza a uno di pudica riluttanza, e lui sembrava leggermelo in faccia. Fu seguendo la voce della strafottenza che mi sollevai e leccai lentamente il palo. E quando non riuscii a controllare la smorfia di estremo disgusto, perdita di aplomb per cui mi fanculizzai da sola, lo vidi scoppiare a ridere come un matto. Una risata in cui ricci, occhi e bocca si muovevano all’unisono e che sapevo risuonare di beatitudine, nonostante non potessi sentire nulla che non fosse il baccano da bordello.
4. «Direi, inoltre, che può tornare ufficialmente alla sua reale mansione, la copy. Anche perché come assistente fa abbastanza schifo.»
Scoppiai a ridere di gusto. Lui rimase impassibile. Ma non era una battuta?
«Non era una battuta» specificò, alzando un sopracciglio.
Ah.
5. «Che stronzo... Ascolta, e se lo avvelenassimo?» borbottai, avvicinandomi alla macchina. Lo Stitico, ovviamente, si era sistemato sul sedile del passeggero, intento a scrollare con l’indice destro la successione di fotografie verticali di uno dei tanti profili social dell’agenzia.
«Ne riparliamo dopo, ma la vedo molto dura.»
«Be’, i pranzi glieli porto io. Non farei fatica a metterci dentro qualcosina.»
«Abbassa la voce, che ci sente.»
«Non dico ammazzarlo, giusto una cosa tipo grave meno meno.»
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