Titolo: Apro gli occhi
Autore: Dario Vergari
Editore: Brè Edizioni
Pagine: 314
In ebook solo su Amazon a 3,99€ anche in KU
In carta a 15€ nelle principali librerie online e fisiche
Genere: romanzo noir-horror
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In vendita dal 26 settembre 2021
Sinossi
Un puzzle. Apro gli occhi è un romanzo puzzle, lo si capisce subito. Decine di caselle, frammenti, vite, persone, vicende, misteri, delitti, morti che diventano orrore puro, ma anche terrorismo, rivoluzioni, rivoluzionari, pazzi, santi, brave persone e mostri umani.
Dario Vergari, con rara abilità, ci porta in un viaggio tra i misteri d’Italia, vicende a tutti note che si mescolano tra fantasia e incubo, tra realtà e ossessioni in grado di portare alla pazzia i protagonisti di questo giallo horror. Aprite gli occhi, tutto sta per accadere!
Biografia
Dario M. Vergari nasce a Pesaro. Dopo studi scientifici muove i primi passi nel mondo artistico come compositore, tastierista e cantante del gruppo new wave The Drivers, per poi intraprendere la strada del musicista solista. Esperto fotografo e fin dai primordi dell’informatica appassionato di computer ed elaborazioni grafiche, si dedica ai viaggi e alla conoscenza di altre culture. Nel 2015 pubblica per la Montag il romanzo distopico REVNION, nel 2020 viene rivisto e ripubblicato con la Brè Edizioni, con la quale, nel 2019 aveva esordito con un romanzo di narrativa del futuro: PhoeniX. Negli ultimi anni è stato occupato a scrivere, parlare con i gatti, comporre musica e lavorare alla sua più grande impresa, la propria famiglia.
Estratto
Lo scheletro di Cesare si sveglia correndo nel bosco buio, si tasta le gambe, le braccia, il torace. Tutto regolare… ha un attimo di esitazione prima di portare le mani al viso. Cosa succederebbe se un dito si conficcasse in un’orbita vuota? Continuerebbe a urlare finché ha fiato, questo è certo. Per sua fortuna la faccia è ancora lì, molliccia, stropicciata e sudata. Non è un bell’incontro con sé stessi di primo mattino, ma quanto basta a capire di avere sognato, e di essere ancora abbastanza vivo. La sua faccia allo specchio conferma l’impressione, nessun morto potrebbe avere un aspetto più insalubre: occhi rossi, pelle flaccida, doppio mento e barba ispida. Tira fuori la lingua e con la velocità di un ramarro la ritrae disgustato. Si guarda la pancia che ormai da anni ha rinunciato a contenere entro limiti dignitosi.
«Che schifo invecchiare» confessa al tubetto di dentifricio. Getta un’occhiata sospettosa alla bilancia e poi con un piede le dà una spinta fino a rispedirla sotto il mobiletto degli asciugamani.
Occhio non vede, pancia non duole.
Uscire dal vagone ferroviario che ferma in Centrale, è come uscire da un’incubatrice incrostata di sonno e catarro da fumatore. Respira una boccata d’aria gelida e dribbla la folla per infilarsi veloce nella galleria della metropolitana.
“Sono troppo vecchio per fare questa vita” pensa scansando valige e borsoni. Mancano solo centoquarantaquattro giorni alla fine di maggio. All’inizio della temuta e agognata libertà. Scende a Missori, come sempre. Come sempre al termine della scala che porta in piazza Velasca l’odore di cipolla che proviene dalla vicina pizzeria gli travolge le narici, l’ombra della Torre gli manda un brivido su per la schiena.
«Salve, dottor Serafini» gli fa il portiere. Cesare grugnisce qualcosa come al solito, potrebbe anche recitare una preghiera o maledirlo in sumero. Quello non si accorgerebbe della differenza, indaffarato com’è a sistemare le buste della corrispondenza nel casellario alle sue spalle. Cesare sale in ascensore, è in notevole ritardo e quando esce al nono piano spera di riuscire a timbrare e a svicolare fino al proprio posto prima che lo Stroppanobili lo veda e si ricordi di avere qualcosa di perfettamente inutile ma necessario da fargli fare. Tanto per divertirsi a far valere il grado di superiore.
Lo stanzone dei comuni impiegati è vuoto. In giro nei corridoi non si vede anima viva, grave indizio di qualcosa che è venuto a turbare i rituali tribali dell’ufficio. Cesare tende l’orecchio, dalla stanza di Malerba, esce un vociare confuso. Vorrebbe ignorarlo e andare a seppellirsi fra i suoi faldoni, tuffarsi nel riportare cifre su colonne, calcolare percentuali e ammortamenti, interessi, semplici e composti, ma sa che è meglio essere al corrente delle novità, prima che qualche furbone sfrutti la sua ignoranza per, ben che vada, farsi gioco di lui. Cesare è sì un pavido, ma se preso in giro reagisce, talvolta in modo spropositato e inopportuno che lo fa sembrare ancora più strano di quel che è. Grazie al suo autocontrollo capita di rado, ma capita.
Entra nella stanza di Malerba dove tutti parlano a voce bassa. Lo guardano di sottecchi ma nessuno lo saluta. Cesare abbozza uno dei suoi rarissimi tentativi di togliersi dall’imbarazzo facendo dello spirito.
«Che succede, è morto qualcuno?» domanda alla persona più vicina, la signorina Villani.
Tutti si voltano verso di lui, alcuni mascherano una risata, altri scuotono la testa in disapprovazione, altri, maschi, si toccano le parti basse.
La signorina Villani dice: «Il commendator Carlomagno. Ieri notte. Un infarto si dice…» la Villani sta continuando a parlare ma Cesare non ascolta più. Pensa al fu direttore che da poco aveva offerto ai dipendenti della Finivel un generoso pranzo a buffet degno di una corte di nobili e Re.
Carlomagno Claudio Fabio Massimo. Era andato in pensione esattamente una settimana addietro, dopo quarant’anni vissuti da dirigente. Settantadue ore di lavoro alla settimana lo avevano mantenuto in vita, dodici ore di lavoro al giorno, che tramutate in ore di libertà lo avevano ammazzato in men che non si dica.
Il chiacchiericcio è ripreso, Cesare sente solo un fischio nella sua testa, quello del rapido che sta per arrivare, prossima fermata 31 maggio. Sarà di certo in orario.
Si avvia verso la sua scrivania, guarda la pila di pratiche da evadere con occhi diversi. Non più come medicina che dà un senso alle giornate, ma come un veleno omeopatico che anno dopo anno gli è entrato nelle ossa, mellifluo e infido. Nondimeno si tuffa nel lavoro, cos’altro potrebbe fare?
È talmente immerso nei conti che la voce di Stroppanobili lo fa sobbalzare sulla sedia, ha sempre il brutto vizio, sicuramente calcolato, di avvicinarsi di soppiatto alle spalle dei dipendenti.
«Dio pazzo. Serafini ti rendi conto? Sei qui che lavori aspettando solo il giorno in cui potrai goderti la pensione e poi…» si passa una mano all’altezza della carotide, che nel suo caso è un gozzo prominente da tacchino «poi ti ritrovi sotto qualche metro di terra senza neanche avere fatto la metà delle cose che volevi.»
Cesare alza la testa dalle carte e lo guarda, vorrebbe pestargli un piede, o dargli un calcio negli stinchi. Qualsiasi cosa per togliergli quel ghigno dalla faccia.
«Meno male che io, gli sfizi che voglio togliermi, me li tolgo subito. Chi gh’ha temp, che’l speta minga temp, Serafini. Ricordatelo eh, prima che diventi vecchio.»
Se ne va ridendo, un istante prima che Cesare perda davvero il controllo sui suoi piedi.
La signorina Villani nota la sua espressione e lo raggiunge reggendo al petto un voluminoso faldone, se lo sistema sull’incavo del braccio quasi volesse allattarlo.
«Ci verrai vero ai funerali domani? Ci saranno tutti, dicono che verrà anche il Pillitteri e il Craxi, ma io non credo. Inizieranno a San Nazaro, alle otto di mattino. Pover’uomo, dopo aver dato la vita per il lavoro non gli era rimasto più niente per cui vivere. Se almeno avesse avuto moglie, o figli. Ma dove lo avrebbe trovato il tempo? Era così operoso, pover’uomo…»
Pover’uomo per modo di dire, pensa Cesare. Si vociferava di un paio di ville a Cortina, una a strapiombo sul mare all’Argentario, una residenza a Favignana che avrebbe fatto invidia a un’aristocratica domus romana, per numero di stanze, piscine, terme, e servitori. Oltre naturalmente alla residenza milanese, degna di un uomo nella sua posizione.
La signorina Villani continua a parlare ma Cesare non ascolta, si limita ad annuire perché sa che questo basta a contentarla. Ha parlato di San Nazaro, dove lavora il tipo della pratica 283/92. Sarà la terza volta in pochi giorni che si incrocia con lui, dopo il primo incontro ufficiale per la richiesta di un prestito e l’incontro casuale in macchina.
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Titolo: Socc’mel
Autore: Ivano Mingotti
Editore: Brè Edizioni
Pagine: 184
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In carta a 12€ nelle principali librerie online e fisiche
Genere: umoristico, dissacrante surreale fantasy
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In vendita dal 2 ottobre 2021
SINOSSI
Pietro è un truffatore senza remore né paura; gode del brivido di fregare l'altro e di scamparla, e la sua vita è costellata da continue fughe e tradimenti. Un bel giorno, però, il mondo decide di finire. E Pietro non può certo truffare l'Apocalisse. Una tragicommedia ambientata nell’Italia attuale, mentre i Quattro Cavalieri danno fuoco al mondo e Gesù Cristo fa surf sulla Statale 33. Un romanzo dissacrante, divertente, per sorridere mentre si riflette su concetti profondi.
Biografia
Ivano Mingotti, classe 1988, è autore di romanzi, sceneggiatore e creator. Ha all'attivo 13 romanzi pubblicati per medio-piccoli editori, 3 sceneggiature teatrali depositate in SIAE e gestisce il canale Youtube “BookTopics” attraverso il quale intervista personalità di spicco del panorama nazionale italiano (tra gli altri Marco Rizzo, Cicap, Inaf, etc.). Ha gestito per anni le collane Nuove Luci e Idea di Amande Edizioni.
Estratto
Sì, Lui. Per la terza volta di fila passa davanti a casa mia pattinando sulla via, avanti e indietro. La veste lunga, di un bianco candido, una coroncina sulla testa, lunghi capelli sulla carnagione olivastra. Sì, schettina direttamente sul cemento. Peccato che non indossi nessun pattino, sta pattinando sulla strada a piedi nudi, così come camminava un tempo sull’acqua, a quanto si dice. Perché non può essere che lui.
Gesù Cristo.
Rimango sbalordito a osservarlo, il ciuchino che lo fissa mentre torna e va, torna e va di nuovo. Mi chiedo se sia qui per me o se si stia solo divertendo, certo la coincidenza è devastante. Tasto il bancone della cucina con la punta delle dita in cerca del bicchiere d’acqua lasciato poco prima senza scollarmi dalla finestra, e non riesco a slacciare gli occhi da Lui. È pure bravo, a pattinare. Insomma, mi verrebbe da dire che pattina da Dio, ma è troppo scontata come battuta.
Alla quinta volta che passa mi nota di sfuggita, e al suo ritorno fa un breve giro su se stesso tenendo i piedi a papera, quindi si mette anche Lui a fissarmi. Rimaniamo così per chissà quanto.
«Ehi!» mi strilla dalla strada.
Io mi guardo intorno, cerco alle mie spalle, quindi punto un dito sul mio petto, come a chiedere se si stia rivolgendo davvero a me.
«Vedi qualcun altro?» mi fa.
Scuoto la testa, no, è ovvio che stia parlando con me.
«Ti ho visto che mi spiavi» grida.
Gesticolo, gli faccio capire che no, non stavo assolutamente spiando. Quello viene più vicino, pattinando ora anche sull’erba del giardino, deviando per superare ciuchino con una manovra elegante, quindi arrivando alla finestra, a pochi centimetri dalla mia faccia. Batte sul vetro.
«Apri.»
Annuisco, e cerco un modo per girare la maniglia. Sono nervoso, impacciato, ho davvero difficoltà ad aprire.
«Va bene, ho capito» e batte le mani. Incredibilmente, la finestra mi si apre davanti, come se il vetro non fosse mai esistito, mentre una breve brezza prende a solleticarmi il viso. Sento l’odore di Gesù Cristo, è buono: non so che profumo mi ricordi, ma qualcosa di ricco, fruttato.
«Allora, perché mio padre ti manda a spiarmi?» mi chiede.
«No no, io...»
«Dai, per favore. Non c’è bisogno di fare tutti questi giri. Cosa ti ha promesso?»
«No no, sul serio, non la stavo guardando, io...» cerco di farfugliare qualcosa.
«Come no.»
«No no, glielo giuro!»
«Certo, stavi solo sorseggiando un bicchiere di vino guardando le nuvole in cielo, vero?»
«No no, è acqua!» mi volto per cercare il bicchiere e farglielo vedere. Lo prendo in mano, e appena mi volto per mostrarglielo il contenuto si rabbuia, diventa violaceo, è tale e quale al vino rosso. Porco cane.
«Eh lo so, succede.»
«Ma io...» farfuglio di nuovo. Porto il bicchiere davanti al volto, cerco di capire.
«Piaciuto? Te l’ho fatto addirittura no look. Figo, no?» sembra divertito.
«Sì, figo.»
«Assaggia, su.»
Annuisco. Porto il bicchiere alla bocca con una certa paura, quindi butto giù un sorso. Che Dio mi fulmini se non è Barbera.
«O preferivi un Sangue di Giuda?» mi chiede, divertito.
«No no.»
«Allora, perché mi vuol far spiare?»
«Non lo so, io ero soltanto...» non faccio in tempo a finire la frase che mi ficca un indice teso davanti alla bocca.
«Shhhh. Non c’è bisogno. So benissimo quanto può essere persuasivo mio padre, su. Che ti ha promesso, la vita eterna? Un posto alla sua destra? No, aspetta!»
«Cosa?» cerco di mormorare, con la bocca mezza tappata dal suo dito.
«Un attico in Paradiso. Ecco, lo sapevo, di nuovo. Santo cielo!» e finalmente mi toglie il dito dalla bocca.
«Io non...»
«No no no, lo capisco. Voi mortali siete così, non potete farci niente. Vi fanno una promessa, vi prendete bene, e tac, ci cascate. Che poi non capisco perché voglia farmi spiare. È la fine del mondo, potrò divertirmi un po’, no?»
Annuisco, sono decisamente spaventato: ho notato sotto il dito teso una delle due stigmate, in pieno palmo.
«Vabbè dai, perdonato, non ti preoccupare. Ma tu come ti chiami, hai detto?»
«Pietro.»
«Ah sì, Pietro. Bel nome eh. Eh, certo che... no no, scusami, solo brutti ricordi. Quando un amico ti tradisce così, sai...»
«Ti tradisce?»
«Sì sì, tradisce, tradisce. Ma roba di secoli fa, non preoccuparti. È che è un po’ una ferita aperta» e si strofina il mento con la mano, la stigma in bella vista.
«Eh, aperta» mormoro.
«Che devo dirti la verità, eh, dopo quella storia della crocifissione avevo anche una mezza idea di mandarvi tutti a fanculo e chiedere a papà il favore di mandarvi all’inferno, ma sai, mio padre non avrebbe mai accettato. Sai com’è, il suo grande piano.»
«All’inferno?» biascico.
«Sì, l’inferno. Sai, quello con le fiamme altissime, i diavoli che ti pungono il sedere, le punizioni. L’inferno, insomma. Te ne avrà parlato papà.»
«In realtà no.»
«Ma sì, Pietro, dai, lo so che usa sempre la minaccia dell’inferno con voi, non fare il timido. A me puoi anche dirlo, a volte è davvero antipatico. Sì, molto antipatico, a volte. È che quando sei lassù ti credi chissà chi e... capisci?»
«Certo, certo» butto giù un altro sorso di vino. Me ne servirebbe una bottiglia intera, diamine. Continuo a fissargli le stigmate, e dalla fronte ha cominciato a scendergli una lacrima di sangue.
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